venerdì 8 giugno 2012

Tienanmen, 23 anni dopo

 wikipedia.org
(foto Jeff Widener, Associated Press).
La notizia diffusa da Amnesty International della morte di uno dei leader di Piazza Tienanmen ci riporta immediatamente l'idea di una Cina repressiva e autoritaria. Chi ha vissuto quei giorni, i giorni della protesta, non può dimenticare le immagini di carri armati che si muovevano verso i manifestanti, verso gli studenti. 
Indimenticabile rimane il coraggio di quello studente cinese che da solo e disarmato si pose di fronte ai carri armati che avanzavano.
Il mio ricordo è, ancora, vivido. Stavo preparando l'esame di storia contemporanea, pochi giorni dopo l'avrei discusso proprio partendo dalla protesta di Piazza Tienanmen.
Spesso nel nostro quotidiano, fatto di beni prodotti in Cina (sovente non conformi alle normative e disposizioni europee) e debiti nazionali comprati dai cinesi dimentichiamo che la Cina non è un paese democratico. La Cina contemporanea rimane un paese autoritario, dove la repressione e la pena di morte ancora prevalgono.

Riporto qui di seguito l'articolo pubblicato ieri 7 giugno 2012 da corriere.it:


La strana morte di Li Wangyang, uno dei leader della Tiananmen
Sono passati soltanto pochi giorni dal 23simo anniversario della repressione di piazza Tiananmen quando ieri uno dei leader delle proteste, Li Wangyang (nella foto a sinistra), in carcere da oltre 22 anni, è morto in circostanze misteriose. L’uomo, 62 anni, reso muto e sordo dalle torture subite durante la prigionia, è stato trovato senza vita ieri mattina in un reparto dell’ospedale di Daxiang nella città di Shaoyang (provincia dell’Hunan) dove era ricoverato per problemi cardiaci e diabete.  A rivenire il cadavere penzolante da una finestra con una fascia legata attorno al collo sono stati  la sorella di Li e suo marito. Per la polizia, che ha portato via il corpo senza il consenso dei familiari, si tratterebbe di suicidio, ma i parenti più stretti escludono l’ipotesi sospettando proprio delle forze dell’ordine.
“L’ho visto ieri sera e non mostrava alcun segno di disperazione – ha raccontato alla stampa il cognato Zhao Baozhu -. Ha sempre avuto una mente lucida e un carattere forte”. Per Human Rights and Democracy in China, gruppo con base ad Hong Kong, non è escluso “che le forze dell’ordine che lo avevano in custodia lo abbiano picchiato talmente tanto da provocarne la morte e che a quel punto abbiano simulato il suicidio” .
Come dissidente Li era sottoposto a stretta sorveglianza e il suo reparto era controllato da oltre 10 poliziotti. Per il suo ruolo nelle proteste del 1989, l’uomo fu condannato a 13 anni di reclusione con l’accusa di aver condotto “attività controrivoluzionarie”; nel 2001 fu rilasciato ma poco dopo venne di nuovo accusato di “incitazione alla sovversione” e condannato ad altri 10 anni di reclusione. Pochi giorni fa, alla vigilia del 23esimo anniversario del massacro, Li Wangyang aveva incontrato alcuni sostenitori. Della pista del suicidio dubitano anche i membri di Chinese Human Rights Defender: “Non si è tolto la vita in 22 anni di brutali sofferenze”.