giovedì 7 giugno 2012

RISORGIMENTO ARABO


Risorgimento arabo
di Beatrice Benocci - Tratto da Focus Primavera araba, UNISA
Dopo un lungo silenzio torno al focus. Il silenzio è dovuto alle tante questioni europee e nazionali che finiscono per interrompere il flusso di notizie e pensieri inerenti la Primavera araba.
La prima riflessione è, quindi, generale. Alla fine del 2010, quando irruppero i primi moti, le prime contestazioni, ci fu chi parlò di un risorgimento nordafricano e arabo; ci si attendeva un processo rapido e risoluto. Ma chiaramente come abbiamo potuto vedere nel corso di questi lunghi mesi il processo appare lungo, a volte lento (del resto anche il nostro Risorgimento non ha avuto tempi brevi). Ciò ha fatto dire a molti osservatori che nulla sarebbe cambiato. In realtà ciò che prevale in questa ampia regione (e ricordo le parole di Oliver Roy: “la rottura con il mondo arabo degli ultimi 60 anni è definitiva”) è la risoluta determinazione di questi popoli, o di una parte di essi, a proseguire lungo la strada del difficile cambiamento in senso democratico; ovvero non si torna indietro e nulla sarà come prima. 

Esempi di questo sentimento, di questo mood, ne sono in queste settimane le elezioni presidenziali egiziane. Essenzialmente pacifiche e democratiche mostrano il desiderio di questo popolo di superare la fase di transizione in atto, gestita dai militari, e avviare una fase nuova. Il punto è quanto nuova? Quale sarà il ruolo dei militari? E quale quello dell'Islam? E ancora quale quello di coloro, i protagonisti di Piazza Tahir, che chiedono un cammino completamente diverso? Scontri e dimostrazioni non mancano in queste ore:
Un gruppo di familiari dei martiri della rivoluzione di gennaio ha inscenato una piccola protesta davanti al seggio issando foto dei manifestanti uccisi nella battaglia dei cammelli a piazza Tahrir il 2 febbraio 2011 e negli scontri davanti al consiglio dei ministri a ottobre dello scorso anno. Prove di democrazia nelle lunghe file che da questa mattina si sono formate ai seggi. Arrivato con la sua scorta al seggio nel quartiere 6 ottobre alla periferia del Cairo, il presidente del Parlamento Saad el Katatni è stato bloccato da un gruppo di elettori che gli ha chiesto di mettersi in coda. Quando Katatni, esponente di punta dei Fratelli musulmani, ha accettato, è scattato l'applauso (http://www.ilmessaggero.it/primopiano/esteri/elezioni_egitto_scontri_ai_seggi_ucciso_un_poliziotto/notizie/198059.shtml).
E infine dalle scelte degli egiziani (ormai prossime) discenderanno i rapporti con Israele e conseguenti reazioni politico-militari nel quadro medio-orientale.
La seconda riflessione riguarda la Siria. Assistiamo ormai da mesi ad un valzer internazionale condotto da ONU, Europa, Stati Uniti, Cina, Russia, Lega Araba e Turchia, che non trova conclusione, se non una: non si può intervenire in Siria. L'opinione pubblica internazionale deve continuare ad assistere inerme al quotidiano massacro di cittadini siriani.
Il primo giugno scorso il Ministro degli Esteri italiano, Terzi, ha dichiarato che la comunità internazionale deve agire compatta in Siria per far fronte ad una crisi umanitaria che preoccupa molto, ma non ci sono i presupposti per una azione militare. La dichiarazione seguiva di pochi giorni il massacro di Hula, in cui avevano perso la vita 108 persone. Si procede, quindi, con la missione ONU e gli aiuti umanitari. La Cancelliera Merkel ha auspicato una soluzione politica per la Siria in accordo con i sovietici, mentre il gruppo degli “Amici della Siria”, costituito dai Ministri di Usa, Regno Unito, Germania, Turchia, Qatar che presiede la Lega Araba, Giordania e Arabia Saudita, invita Damasco a seguire il Piano Annan.
Come sostenuto ancora ieri dal Ministro Terzi, di Damasco non ci si può fidare:
"La strategia di Damasco rischia di produrre un genocidio, se non si interviene rapidamente (…) il regime siriano "intende difendere la propria sopravvivenza attraverso un'escalation, in forme sempre più dirette e brutali, del terrore contro la popolazione civile ed alimentando artificialmente le conflittualità interne tra le diverse componenti della società siriana".
Ma del resto, ha concluso Terzi, il “Piano Annan è l'unico strumento di cui disponiamo e dobbiamo farlo funzionare”.
Chi, in un certo qual modo si è già stancato del disatteso Piano Annan, sono i siriani, i combattenti:
In Siria la tregua continuamente violata è a un passo dal fallimento definitivo. I ribelli dell’esercito libero hanno affermato che non rispetteranno più il cessate il fuoco previsto dal piano Annan.
Gli scontri con i soldati di Bashar Al Assad sono continuati lunedì, oltre trenta le vittime. Il generale Robert Mood, capo della missione di osservatori dell’Onu, ha incontrato un gruppo di ribelli. Chiedono che la comunità internazionale imponga un’area di non sorvolo e una zona cuscinetto.
Il generale Mood sostiene che attori esterni alimentino il conflitto. “Siamo abbastanza sicuri che siano arrivati denaro e armi da altri soggetti”, dice. “Non dai villaggi siriani, ma dall’estero, ciò contribuisce a incrementare la spirale di violenza”.
Dalla Turchia altri oppositori hanno annunciato la creazione di una nuova struttura militare, il “fronte dei rivoluzionari siriani”. Dicono di contare su dodicimila combattenti e di essere in contatto con l’esercito siriano libero (http://it.euronews.com/2012/06/05/siria-i-ribelli-non-rispetteranno-la-tregua-del-piano-annan/).
E' chiaro che ci si appresta ad assistere ad una guerra civile sotto il veto russo.
La terza riflessione riguarda la Tunisia. Superata pacificamente la prima fase di transizione, grazie soprattutto al suo essere una società laica e da tempo organizzata (associazioni, sindacati, partiti), la Tunisia è oggi costretta ad affrontare i nodi economici, cioè la povertà e la mancanza di risorse, che furono alla base delle prime proteste. Lo scorso aprile studenti e giovani lavoratori delle miniere si sono ritrovati a manifestare insieme, a chiedere al governo le misure necessarie per far ripartire l'economia. Non sono mancati scioperi della fame, né tentativi di suicidio. Non sono mancati, soprattutto, scontri con gli islamisti. I tunisini non vogliono una deriva religiosa per il loro paese:

«La gente ha paura che gli islamisti si approprino della rivoluzione, all'interno della quale i religiosi hanno avuto un ruolo marginale, attendista fino all'ultimo. I quadri di Ennahdha erano all'estero o in galera, così hanno vinto sull'onda dell'emotività, perché tra un candidato che aveva subito la galera e uno che magari sotto Ben Alì era sì represso ma che riusciva comunque a esistere la gente ha preferito il primo. Ma una volta uscita dalla clandestinità Ennahdha deve scontare due limiti, da un lato i dirigenti non capiscono più la società tunisina, che è andata avanti, e dall'altro non hanno personale politico adeguato. E di questo sono consapevoli. (…) Oggi i tunisini sono in strada per ricordare alla politica: attenzione, siamo qui» (http://www.carmillaonline.com/archives/2012/05/004315.html).
La Tunisia ha davanti a sé un anno importante, durante il quale dovrà cercare non solo di far ripartire i sistema paese, ma soprattutto dovrà far dialogare le diverse anime politiche esistenti affinché tra un anno i cittadini possano finalmente votare il primo vero governo post rivoluzionario.
Articoli interessanti sul tema Egitto:
1) Le prospettive di riconciliazione tra Fatah e Hamas sono strettamente legate all’esito della transizione egiziana, ed in particolare della corsa presidenziale – scrive l’analista palestinese Hani al-Masri (analista politico palestinese).
2) il blog www.yallaitalia.it con l'intervento di Rania Ibrahim e relativi commenti
3) Divisi si perde di Paola Caridi