martedì 22 ottobre 2013

Propongo un interessante articolo di Paola Caridi sulla Siria:
http://invisiblearabs.com/

CONTRO LA GUERRA DEL LEVANTE

Confesso che non avrei mai creduto di dover scrivere questo commento perché pressata dai miei lettori e da chi, in questi ultimi giorni, mi ha accusata di nicchiare sull’argomento “Siria” perché, in fondo, non sono contro il regime di Bashar el Assad.

Eppure avevo già detto perché sulla Siria scrivevo poco: ci sono analisti che ne sanno molto più di me. Che parlino – giustamente – loro e spieghino a noi tutti cosa succede nel ‘buco nero’ di Damasco, del potere degli Assad, della burocrazia-sistema.
Ora, però, bisogna dire come la si pensa. Non tanto per chi, in questi ultimi giorni mi ha attaccato usando i soliti termini enfatici dell’ultimo ventennio italiano (“schifo” è una delle parole usate in questa occasione, “vomito” è invece una di quelle che mi hanno scritto per la mia posizione sull’Egitto).
Non è tanto per rispondere alle offese: a quelle vorrei rispondere non parlando di Siria, ma parlando un giorno del modo in cui abbiamo ridotto vocabolario e capacità di discutere in Italia.Parliamo, dunque, di Siria. Alcuni anni fa ho cercato di avere un visto per giornalisti, per andare di nuovo in Siria. Volevo intervistare i leader di Hamas per il mio libro sul movimento islamista
palestinese. Rifiutato, più volte. Scoprii, poi, che era perché avevo scritto un articolo sul partito Baath che a Damasco non era piaciuto. Incerti del mestiere, se provi a usare lo spirito critico, in questo caso sul regime degli Assad. Non sono, dunque, una di quelle ciniche sostenitrici del regime che “sì, in fondo non è una dittatura, tiene unita la Siria, la mantiene laica, e aiuta anche i cristiani”. No, il regime di Assad padre e Assad figlio non mi è mai piaciuto, l’aria para-sovietica che si respirava talvolta a Damasco (simile a quella che avevo respirato nell’Europa dell’est pre-1989) non mi piaceva affatto. Gli informatori del regime seduti nelle hall degli alberghi, la pervasività del controllo, i terribili vestiti da uomo tra il crema e il grigino spento, la necessaria convivenza tra un regime stantio e una società così vivace, raffinata, bella…
Quando dalla Siria cominciarono ad arrivare le immagini di “Bab El Hara”, inno al nazionalismo e alla rivolta in versione serial televisivo, in molti cominciammo a capire che il vestito del regime costruito attorno alla società siriana si andava slabbrando. Ma la Siria di Assad faceva e fa comodo a molti. Non certo a me. Fa comodo ai vicini israeliani, come hanno ripetuto spesso in questi anni in Israele commentatori e alti esponenti militari e dell’intelligence: meglio un nemico conosciuto di uno di cui non si conoscono vita, morte, miracoli e difetti. Aggiungo: meglio Assad, che sul Golan non ha praticamente sparato un colpo, di un nuovo sistema istituzionale siriano, magari democratico, che avrebbe posto seriamente sul tappeto la questione del Golan occupato e di un contenzioso diplomatico mai risolto.
Il regime degli Assad, poi, non è dispiaciuto così tanto all’Europa. Non è dispiaciuto affatto all’Italia, compreso alla politica targata DC e PSI che con Assad padre ha molto colloquiato. Anche gli Stati Uniti hanno provato a più riprese a ragionare, con il regime di Damasco, e lo stesso – anzi, di più – ha fatto il Regno Unito. Tralascio di parlar della Russia, visto che l’alleanza Mosca-Damasco è l’unico brandello rimasto di guerra fredda in Medio Oriente, sostenuta – però – da attualissime e determinanti questioni di controllo strategico delle vie del petrolio più a oriente, attraverso le buone relazioni con l’asse siro-iraniano.
E ora, dunque, cos’è cambiato? Tutti questi attori, che per due anni e mezzo hanno mostrato una serissima e preoccupante incapacità non solo diplomatica ma strategica verso la Siria, ora piangono i morti per gas nervino?
Sappiamo tutti che non è così, e che l’accelerazione degli ultimi giorni sul piano militare non ha nulla a che vedere con una presunta pressione delle opinioni pubbliche occidentali. La Siria non fa breccia nei cuori occidentali sin dal 15 marzo del 2011. Nonostante San Paolo, Aleppo, le stoffe damascene, la moschea degli Omayyadi e le reliquie di San Giovanni Battista. Ahimè, il biancore irreale dei bambini morti per armi chimiche non ha avuto peso, in questa accelerazione, come non lo hanno avuto i settemila bambini morti sino ad ora e le centinaia di migliaia, i milioni di bambini sparsi per la Siria, sfollati, e quelli profughi fuori dai confini del Bilad as-Sham. Semmai, forse, è stato l’aumento della tensione dentro il Libano, con le ultime autobombe a Beirut sud e soprattutto a Tripoli, a far accelerare la macchina militare di Washington e Londra.
Il gioco è cinicamente diplomatico-strategico? Si direbbe di sì. Eppure, a me verrebbe da dire: magari. Magari vi fosse una unica precisa strategia, da condividere o da osteggiare. Magari vi fosse un unico obiettivo, serio e condivisibile, oppure malsano. E invece, per quanto mi riguarda, vedo all’orizzonte molta confusione, come quella del Grande Gioco che storicamente ha invischiato l’Afghanistan in un destino funesto. In sostanza, ci sono molti obiettivi, molte alleanze che si fanno e si disfano a seconda del momento, molti nemici, molti interessi individuali (dei singoli Stati) e poca strategia.
È per questo che sono con profonda convinzione contro la prossima Guerra del Levante. Una guerra che non aiuterà la memoria dei bambini morti per gas e di quelli morti per proiettili, fame, crudeltà. Una guerra che forse inizierà con qualche missile lanciato da qualche nave di fronte alle coste siriane, e che può continuare con qualche razzo sparato dal Libano verso Israele, dove il 60% della popolazione ha ora le maschere antigas. E nel Libano del sud, se qualcuno se ne fosse dimenticato, ci sono mille soldati italiani in territorio controllato da hezbollah che dovrebbero interporsi (a cosa? A chi?). E più a nord – nell’area di Tripoli – c’è una tensione così forte che ai libanesi parla ancora una volta di guerra civile per procura. Poi, più a est, c’è un Iraq per nulla pacificato, con mille morti per attentati nel solo mese di luglio (qualcuno, in Italia, se n’è accorto, e ha per caso gridato all’orrore e alla crudeltà di un massacro che va avanti da dieci lunghissimi anni?).
Non credo serva a molto, agli strateghi, aver protetto il fianco sud di Israele, se questa è stata una delle ragioni che sottendono al colpo di stato militare in Egitto (ah, già, non è un golpe, allora continuiamo a chiamarlo Ugo!). Normalizzato l’Egitto, ci si può rivolgere a nord, dalle parti della Siria, con un po’ più di sicurezza… Non credo serva perché in Medio Oriente le operazioni chirurgiche possono avere risultati concreti nel breve periodo (vedi l’ultima breve e sanguinosa guerra Libano-Israele del 2006 o l’Operazione Piombo Fuso lanciata da Israele contro Gaza nel dicembre del 2008). Poi, però, aprono i vasi di Pandora che la storia recente ci ha mostrato.
Così, un intervento militare anglo-americano senza una strategia chiara, e un obiettivo altrettanto chiaro, non può che aprirlo, l’ennesimo vaso di Pandora. Cosa vuol dire, un intervento militare limitato? Dire ad Assad di non superare la linea rossa delle armi chimiche? Una richiesta ridicola, vista la tragedia in atto da due anni e mezzo: la linea rossa è già stata superata nei primi mesi della repressione di Assad contro la rivoluzione siriana, e se si fosse intervenuti allora, con una seria e preparata diplomazia, non staremmo qui a fare gli spettatori della più grande fuga di civili inermi dalla guerra che il Medio Oriente abbia mai visto. Se le cancellerie fossero intervenute allora, non ci troveremmo qui a tentare di capire quali sono i cattivi meno cattivi, a capire chi, nel fronte dell’opposizione, gioca veramente per i siriani, e chi invece per i qatarini, i sauditi, i turchi, e via elencando.
E allora, qual è il vero obiettivo? Creare un precedente nei confronti dell’Iran? Come per dire a tutto il mondo che Stati Uniti e Gran Bretagna rispondono, sanzionano, bombardano se si usano le armi proibite (armi proibite? Cosa vuol dire, che le altre sono lecite? Che a Falluja non è successo niente? Che il fosforo bianco su Gaza era lecito? Che i bombardamenti sulle città fanno meno male?). Il messaggio potrebbe essere: attenta Teheran, possiamo anche farlo, un bombardamento chirurgico sui tuoi siti nucleari, così come possiamo colpire i siti che le intelligence ci indicheranno, in territorio siriano.
Non è così, non è con un intervento militare inizialmente limitato che si risolve il rovello siriano. Non è con una discussione da bar dello sporti, e cioè sposando una causa, che si salvano i civili siriani. Non è innalzando i recinti tra i buoni e i cattivi (a proposito: chi li decide, i buoni e i cattivi?) che si risponde in maniera seria a una tragedia che vede tutti responsabili, noi compresi. Non sono una pacifista tout court. Sono stata tra coloro che hanno chiesto, ben prima dell’intervento in Kosovo, l’intervento in Bosnia, dove si è consumata un’altra tragedia ignorata per anni dalle opinioni pubbliche europee. Con la stessa forza, oggi, mi oppongo all’intervento militare ‘limitato’, che non è contro regime, ma sarà – nel tempo malsano della guerra – contro i siriani. I civili siriani.
Questa è la mia posizione sulla Siria. Come mi avevate chiesto.