Primavera araba, risorgimento islamico e prove di democrazia
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di Beatrice Benocci
Nel corso del 2011 molti osservatori, che avevano guardato alla Primavera araba cercando similitudini con il nostro Risorgimento, erano rimasti delusi; altri, considerando i lenti progressi dei movimenti rivoluzionari, avevano profetizzato un loro facile fallimento. In realtà, come commentato dallo studioso francese Olivier Roy nel luglio 2011, il processo rivoluzionario che chiedeva democrazia e buon governo era da considerarsi un processo ormai irreversibile. E così è stato e continua ad essere. Ciò che appare evidente oggi, a distanza di due anni dal suo emergere, è che la Primavera araba, fortemente caratterizzata dalla presenza in prima linea di giovani e donne, non è solo un processo di trasformazione di regimi autoritari in governi democratici, in grado di garantire i diritti civili e politici ai loro cittadini, è soprattutto la ricerca di una nuova dimensione dell’Islam. Una trasformazione nella rivoluzione. Un’accelerazione di quel processo di confronto, fino a pochi mesi fa solo teorico, tra Islam e democrazia. Laddove i partiti islamici hanno assunto funzioni di governo, come avvenuto in Tunisia e in Egitto, si sono creati veri e propri banchi di prova: qui i governi a guida islamica sono costretti a confrontarsi con il concetto di democrazia, e non solo; chi oggi è al governo deve coniugare i propri principi e precetti con la governance, ovvero confrontarsi con l’economia di mercato, con le dinamiche socio-economiche, con la crescente disoccupazione (nel mondo arabo la disoccupazione giovanile è al 26,2%, Report ILO 2012). Come sottolineato recentemente dallo scrittore egiziano Alaa Al-Aswany oggi l’Islam è chiamato a rinnovarsi e non può che partire dal principio di democrazia e da quello di rispetto dei diritti umani per tornare ad essere ciò che è stato in passato: faro di conoscenza e ispiratore di valori umani e sociali.