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Il vento e la palude
di Marco Damilano
Valeva la pena stare due giorni alla stazione Leopolda di Firenze con
i ragazzi di Matteo Renzi e poi prendere di corsa un treno per correre a
Roma agli studios De Paolis sulla Tiburtina per assistere finalmente al
primo ciak della creatura montezemoliana in questo sabato 17 novembre.
Perché non sono i lanci d’agenzia o i retroscena a rivelare il senso e
le potenzialità e i limiti dei due progetti e dei rispettivi leader, ma
l’osservazione delle platee, i mondi che mettono in movimento alla
vigilia dello scontro elettorale 2013.
Agli studi De Paolis nel pomeriggio i i soliti noti erano fin troppi,
benché accuratamente allontanati dalle prime file. In sala si
aggiravano, per dire, l’ex portavoce di Ciriaco De Mita e l’ex portavoce
di Antonio Gava. C’è la Roma ministeriale e Enrico Vanzina. I capi di
gabinetto, i direttori generali, le relazioni istituzionali. Intere file
composte da uomini, come si usava un tempo. Il pubblico impiego e
l’associazionismo bianco. Volti di un’Italia popolare, moderata,
centrista, in cerca della rappresentanza politica perduta. Un’Italia
mediana, ceto medio nostalgico di normalità. Diverso dal partito dei
Carini immortalato da Crozza, elitario e dedito alla caccia al fagiano
(la fagianata!). Antropologicamente distante anni luce dall’estetica
berlusconiana: gonne castigate e tacchi bassi per le signore, giacche
stazzonate e blu ministeriale per i signori. Un pomeriggio
democristiano.
Renzi a Firenze imbrocca il discorso migliore della sua carriera
politica, nessuna sbavatura, zero battute, tutto all’attacco. Un leader
che vuole portare l’Italia fuori dalla palude, «l’avventura è
un’incognita, ma a noi non piace quello che già c’è», che affronta le
primarie non come uno scontro tra caratteri ma tra due modelli: la
sicurezza o il futuro, «un piacere e una sfida». Da un lato l’usato
sicuro di Bersani, che così sicuro non è, basta vedere com’è andata a
Parma quando ha vinto il candidato grillino, «il momento in cui ho
deciso di correre», rivela Renzi. Dall’altro il cambiamento «che non è
mai stato così alla portata di mano». Vero? Falso? Chissà: di certo i
sondaggi danno in vantaggio Bersani («ma i leader i sondaggi non li
commentano, li cambiano», avverte lo sfidante). Ma solo una vittoria di
Renzi sarebbe per il sistema lo choc necessario. E sarebbe il vero atto
di nascita del Partito democratico. Quello di Veltroni non ebbe il tempo
di crescere, fu rapidamente travolto dagli avversari interni, a causa
della debolezza culturale del progetto e del rifiuto del suo leader di
dare battaglia in un congresso. Quello di Bersani è sempre più un
partito socialdemocratico vecchio stile, per di più appesantito da una
voglia di rivincita dell’apparato organizzativo e intellettuale del
vecchio Pci che intende ricostruire il Partitone rosso del tempo che fu,
con i suoi riti e le sue pachidermiche lentezze. Conclusione: può darsi
che il corpaccione stia con il segretario ma lo spirito per cui è stato
fondato il Pd svolazzava questa mattina alla Leopolda. La voglia di
vincere senza delegare la rappresentanza del centro a Casini o ad altri,
senza allearsi con una pletora di partitini, il leader selezionato con
le primarie che aspira a governare, la citazione di Obama («A land of
hopes and dreams…»). E soprattutto una carica di passione senza la quale
non esiste il Pd. «Non chiamateci renziani, renziano è una malattia»,
scherza il Bimbaccio diventato grande. «Chiamateci entusiasti». E la
conclusione: «C’è un’Italia viva, noi abbiamo un solo compito: lasciarla
passare».
C’era entusiasmo anche negli studi De Paolis e pazienza se il gobbo
invisibile si inceppa all’improvviso e Montezemolo interrompe il
discorso. Una versione moderna e laicizzata della Dc che fu. Non più la
Balena Bianca che danzava sulle note di Gino Latilla, “Son tutte belle
le mamme del mondo”, ma una aggressiva Tecno-Dc. In cui Montezemolo
porta in dote il fascino dell’imprenditore di successo (lascito della
Seconda Repubblica) e Riccardi, le Acli e la Cisl mettono a disposizione
il solidarismo cattolico e le truppe delle loro associazioni (come si
faceva ai tempi della Prima) e le loro parole d’ordine: meno impresa e
più sociale, meno liberismo e più sussidiarietà, sugli schermi
scorrevano immagini di tolstojane famiglie felici, tutte uguali. La
vagheggiata Terza Repubblica nasce da questo connubio, un secondo Patto
Gentiloni tra liberali e cattolici a un secolo di distanza esatto dal
primo, con la benedizione dei poteri che contano, dal Vaticano alla
Fiat, con un leader che non c’è e che non si candida (Montezemolo) e uno
che c’è ma non corre, Mario Monti. Il governo dei senza partito prova a
trasformarsi nel partito del governo. Ma è proprio qui che si nasconde
la principale insidia dell’operazione: il ventennio tragicomico della
Seconda Repubblica berlusconiana non può far dimenticare che per decenni
l’Italia ha vissuto una situazione di democrazia bloccata, in cui il
partito di centro era, per definizione, il partito di governo, tutto il
resto non aveva le carte in regole per accedere alle stanze
ministeriali. E si sa com’è andata: dopo la prima fase del centrismo di
De Gasperi e del centro-sinistra di Fanfani e di Moro è arrivata l’era
della stagnazione. Perché l’Italia muore per carenza di concorrenza in
economia e di conflitto (sano) in politica. E senza conflitto e ricambio
il riformismo di governo si trasforma ben presto nel suo opposto: il
potere che logora tutti, anche chi ce l’ha, l’immobilismo, la palude.
Per l’Italia non sarebbe un bene la ricostruzione di un grande centro
immobile. Per il Pd di un Bersani vittorioso alle primarie, poi,
sarebbe un rischio mortale: quanto potrebbe durare, in queste
condizioni, un governo guidato da Bersani anche se il Pd dovesse
conquistare il posto di partito di maggioranza relativa alle elezioni?
Un Pd che ha accettato la divisione del campo in progressisti e moderati
sarebbe ricacciato in una posizione subalterna, il partito della Cgil e
dell’Emilia e della Toscana costretto a lasciare il monopolio delle
riforme e del governo all’ingombrante alleato neo-centrista. Con il Pdl
berlusconiano ridotto a formazione estremista della destra radicale e il
movimento di Grillo a cavalcare l’anti-politica. Tutto già scritto?
Così pare. A meno che, come spesso accade, non arrivi il vento del
cambiamento a scompigliare le pagine della storia. Il popolo degli
outsider, degli ospiti imprevisti. I non tesserati, i non registrati. I
non Invitati. Alle primarie di domenica hanno una bella occasione per
far sentire quanto contano.
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