di Beatrice Benocci - Tratto da Focus Primavera araba, UNISA
Dopo un lungo silenzio torno al focus. Il silenzio è
dovuto alle tante questioni europee e nazionali che finiscono per
interrompere il flusso di notizie e pensieri inerenti la Primavera
araba.
La prima riflessione è, quindi, generale. Alla fine
del 2010, quando irruppero i primi moti, le prime contestazioni, ci
fu chi parlò di un risorgimento nordafricano e arabo; ci si
attendeva un processo rapido e risoluto. Ma chiaramente come abbiamo
potuto vedere nel corso di questi lunghi mesi il processo appare
lungo, a volte lento (del resto anche il nostro Risorgimento non ha
avuto tempi brevi). Ciò ha fatto dire a molti osservatori che nulla
sarebbe cambiato. In realtà ciò che prevale in questa ampia regione
(e ricordo le parole di Oliver Roy: “la rottura con il mondo
arabo degli ultimi 60 anni è definitiva”) è la risoluta
determinazione di questi popoli, o di una parte di essi, a proseguire
lungo la strada del difficile cambiamento in senso democratico;
ovvero non si torna indietro e nulla sarà come prima.
Esempi di
questo sentimento, di questo mood, ne sono in queste settimane
le elezioni presidenziali egiziane. Essenzialmente pacifiche e
democratiche mostrano il desiderio di questo popolo di superare la
fase di transizione in atto, gestita dai militari, e avviare una fase
nuova. Il punto è quanto nuova? Quale sarà il ruolo dei militari? E
quale quello dell'Islam? E ancora quale quello di coloro, i
protagonisti di Piazza Tahir, che chiedono un cammino completamente
diverso? Scontri e dimostrazioni non mancano in queste ore:
Un gruppo di familiari dei martiri della
rivoluzione di gennaio ha inscenato una piccola protesta davanti al
seggio issando foto dei manifestanti uccisi nella battaglia dei
cammelli a piazza Tahrir il 2 febbraio 2011 e negli scontri davanti
al consiglio dei ministri a ottobre dello scorso anno. Prove di
democrazia nelle lunghe file che da questa mattina si sono formate ai
seggi. Arrivato con la sua scorta al seggio nel quartiere 6 ottobre
alla periferia del Cairo, il presidente del Parlamento Saad el
Katatni è stato bloccato da un gruppo di elettori che gli ha chiesto
di mettersi in coda. Quando Katatni, esponente di punta dei Fratelli
musulmani, ha accettato, è scattato l'applauso
(http://www.ilmessaggero.it/primopiano/esteri/elezioni_egitto_scontri_ai_seggi_ucciso_un_poliziotto/notizie/198059.shtml).
E infine dalle scelte
degli egiziani (ormai prossime) discenderanno i rapporti con Israele
e conseguenti reazioni politico-militari nel quadro medio-orientale.
La seconda riflessione
riguarda la Siria. Assistiamo ormai da mesi ad un valzer
internazionale condotto da ONU, Europa, Stati Uniti, Cina, Russia,
Lega Araba e Turchia, che non trova conclusione, se non una: non si
può intervenire in Siria. L'opinione pubblica internazionale deve
continuare ad assistere inerme al quotidiano massacro di cittadini
siriani.
Il primo giugno scorso il Ministro degli Esteri
italiano, Terzi, ha dichiarato che la comunità internazionale deve
agire compatta in Siria per far fronte ad una crisi umanitaria che
preoccupa molto, ma non ci sono i presupposti per una azione
militare. La dichiarazione seguiva di pochi giorni il massacro di
Hula, in cui avevano perso la vita 108 persone. Si procede, quindi,
con la missione ONU e gli aiuti umanitari. La Cancelliera Merkel ha
auspicato una soluzione politica per la Siria in accordo con i
sovietici, mentre il gruppo degli “Amici della Siria”, costituito
dai Ministri di Usa, Regno Unito, Germania, Turchia, Qatar che
presiede la Lega Araba, Giordania e Arabia Saudita, invita Damasco a
seguire il Piano Annan.
Come sostenuto
ancora ieri dal Ministro Terzi, di Damasco non ci si può fidare:
"La
strategia di Damasco rischia di produrre un genocidio, se non si
interviene rapidamente (…) il regime siriano "intende
difendere la propria sopravvivenza attraverso un'escalation, in forme
sempre più dirette e brutali, del terrore contro la popolazione
civile ed alimentando artificialmente le conflittualità interne tra
le diverse componenti della società siriana".
Ma del resto,
ha concluso Terzi, il “Piano Annan è l'unico strumento di cui
disponiamo e dobbiamo farlo funzionare”.
Chi, in un
certo qual modo si è già stancato del disatteso Piano Annan, sono i
siriani, i combattenti:
In Siria la
tregua continuamente violata è a un passo dal fallimento definitivo.
I ribelli dell’esercito libero hanno affermato che non
rispetteranno più il cessate il fuoco previsto dal piano Annan.
Gli scontri con i soldati di Bashar Al Assad sono
continuati lunedì, oltre trenta le vittime. Il generale Robert Mood,
capo della missione di osservatori dell’Onu, ha incontrato un
gruppo di ribelli. Chiedono che la comunità internazionale imponga
un’area di non sorvolo e una zona cuscinetto.
Il generale Mood sostiene che attori esterni
alimentino il conflitto. “Siamo abbastanza sicuri che siano
arrivati denaro e armi da altri soggetti”, dice. “Non dai
villaggi siriani, ma dall’estero, ciò contribuisce a incrementare
la spirale di violenza”.
Dalla Turchia altri oppositori hanno annunciato
la creazione di una nuova struttura militare, il “fronte dei
rivoluzionari siriani”. Dicono di contare su dodicimila combattenti
e di essere in contatto con l’esercito siriano libero
(http://it.euronews.com/2012/06/05/siria-i-ribelli-non-rispetteranno-la-tregua-del-piano-annan/).
E' chiaro che
ci si appresta ad assistere ad una guerra civile sotto il veto russo.
La terza
riflessione riguarda la Tunisia. Superata pacificamente la prima fase
di transizione, grazie soprattutto al suo essere una società laica e
da tempo organizzata (associazioni, sindacati, partiti), la Tunisia è
oggi costretta ad affrontare i nodi economici, cioè la povertà e la
mancanza di risorse, che furono alla base delle prime proteste. Lo
scorso aprile studenti e giovani lavoratori delle miniere si sono
ritrovati a manifestare insieme, a chiedere al governo le misure
necessarie per far ripartire l'economia. Non sono mancati scioperi
della fame, né tentativi di suicidio. Non sono mancati, soprattutto,
scontri con gli islamisti. I tunisini non vogliono una deriva
religiosa per il loro paese:
«La gente
ha paura che gli islamisti si approprino della rivoluzione,
all'interno della quale i religiosi hanno avuto un ruolo marginale,
attendista fino all'ultimo. I quadri di Ennahdha erano all'estero o
in galera, così hanno vinto sull'onda dell'emotività, perché tra
un candidato che aveva subito la galera e uno che magari sotto Ben
Alì era sì represso ma che riusciva comunque a esistere la gente ha
preferito il primo. Ma una volta uscita dalla clandestinità Ennahdha
deve scontare due limiti, da un lato i dirigenti non capiscono più
la società tunisina, che è andata avanti, e dall'altro non hanno
personale politico adeguato. E di questo sono consapevoli. (…) Oggi
i tunisini sono in strada per ricordare alla politica: attenzione,
siamo qui»
(http://www.carmillaonline.com/archives/2012/05/004315.html).
La Tunisia ha
davanti a sé un anno importante, durante il quale dovrà cercare non
solo di far ripartire i sistema paese, ma soprattutto dovrà far
dialogare le diverse anime politiche esistenti affinché tra un anno
i cittadini possano finalmente votare il primo vero governo post
rivoluzionario.
Articoli interessanti
sul tema Egitto:
1) Le prospettive di riconciliazione tra
Fatah e Hamas sono strettamente legate all’esito della transizione
egiziana, ed in particolare della corsa presidenziale – scrive
l’analista palestinese Hani al-Masri (analista
politico palestinese).
2)
il blog www.yallaitalia.it
con l'intervento di Rania
Ibrahim e relativi commenti
3) Divisi
si perde di Paola Caridi