Classe dirigente e futuro del paese
I leggendari poteri forti
Non vi sono vere élite o egemonie di qualità, ma solo una congerie disordinata e caotica di ingessature corporative
La settimana più difficile del governo si chiude con la scelta,
coraggiosa, dei nuovi vertici Rai. Ora speriamo che un analogo colpo
d'acceleratore sia impresso alle misure, assai tormentate, del pacchetto
sviluppo. Monti fa bene ad andare avanti senza guardare in faccia
nessuno e a cogliere le critiche (anche di questo giornale) con spirito
costruttivo. La parte responsabile del Paese, che crediamo
maggioritaria, sa che non vi sono alternative a questo governo, al di
fuori del caos greco. Elezioni anticipate sarebbero semplicemente una
sciagura nazionale e tutti dobbiamo guardare, con ragionevole fiducia,
all'appuntamento europeo di fine mese. Se l'Europa si sveglierà dal
proprio torpore autodistruttivo, salvando l'euro e se stessa, dovrà
ringraziare anche il nostro premier.
Esistono élite di grande livello cui il governo ha fatto abbondante ricorso anche in questi giorni: le migliori università, la Banca d'Italia e non solo. Un tempo ve n'erano di più: raffinate culture d'impresa di grandi gruppi, anche bancari, privati e pubblici. È rimasto ben poco. Pallide eredità, epigoni incapaci di assicurare stabili governance alle loro società, figuriamoci se in grado di suggerire metodi di governo generale. Gli esempi sono pessimi. La stessa Confindustria appare appesantita dalle proprie contraddizioni. Chiede di tagliare la spesa pubblica e di eliminare le Province e non riesce nemmeno a ridurre i propri costi di struttura. Comunque, stiamo parlando di realtà positive, di qualità. Microcosmi, però, che non hanno attecchito nella cultura generale. Qualche volta anche per colpa loro, per via di una certa arroganza intellettuale e di un senso di estraneità alle sorti del Paese.
La nostra storia è ricca di anti-italiani o italiani per caso.
Un vezzo culturale sintomo di un'appartenenza debole. Poi ci sono altre
élite , se possiamo chiamarle così, non certo nell'accezione che Wright
Mills usò per quelle americane. Le più diffuse sono sprovviste di regole
e valori. Circoli di potere, cordate, alleanze trasversali, blocchi
corporativi, alti burocrati, persino magistrati, cerchi magici di varia
natura, spesso casereccia. Tutto meno che nuclei di una moderna classe
dirigente.
I più recenti studi sulla composizione delle élite italiane ci dicono che la struttura è ancora quasi essenzialmente maschile. Nove su dieci sono uomini. Sette su dieci in Francia, sei nel Regno Unito. L'età media delle persone di potere cresce e ormai ha superato i 60 anni; le élite italiane sono forti nel consenso e deboli in competenze; viaggiano meno e sono più provinciali di quelle estere; conoscono poco le lingue; sono centro-nordiste e metropolitane, pressoché assenti al Sud, il ricambio avviene ancora troppo per cooptazione. Insomma, una classe dirigente a sesso unico, provinciale e autoreferenziale. Riluttante nell'immagine impiegata da Carlo Galli. Interprete del fenomeno sociale descritto nei suoi libri da Carlo Carboni: il passaggio dal familismo amorale all'individualismo amorale.
I più recenti studi sulla composizione delle élite italiane ci dicono che la struttura è ancora quasi essenzialmente maschile. Nove su dieci sono uomini. Sette su dieci in Francia, sei nel Regno Unito. L'età media delle persone di potere cresce e ormai ha superato i 60 anni; le élite italiane sono forti nel consenso e deboli in competenze; viaggiano meno e sono più provinciali di quelle estere; conoscono poco le lingue; sono centro-nordiste e metropolitane, pressoché assenti al Sud, il ricambio avviene ancora troppo per cooptazione. Insomma, una classe dirigente a sesso unico, provinciale e autoreferenziale. Riluttante nell'immagine impiegata da Carlo Galli. Interprete del fenomeno sociale descritto nei suoi libri da Carlo Carboni: il passaggio dal familismo amorale all'individualismo amorale.
Un'altra scomoda verità: ci eravamo illusi che il privato con le
sue virtù cambiasse il pubblico. Dobbiamo constatare che molto più
frequentemente i difetti del pubblico hanno contagiato il privato.
Eravamo convinti che le privatizzazioni in Italia avrebbero esaltato i
comportamenti virtuosi e isolato le pratiche peggiori. Hanno premiato,
salvo pochi casi, le consorterie opache e diffuso la convinzione
perniciosa che una relazione conti più di un risultato, che l'amicizia
prevalga sul merito. Il mercato per troppi è ancora un luogo dello
spirito, una selva oscura dalla quale difendersi. Con ogni mezzo.
Le privatizzazioni italiane non sono state decise nel giugno di vent'anni fa, a bordo del panfilo Britannia, sul quale la finanza anglosassone avrebbe irretito la nostra, come insiste un'altra vulgata sui poteri forti. Ma hanno visto la tendenza sistematica del grande capitalismo privato italiano a trovare rifugio negli ex monopoli pubblici o nel sistema delle concessioni statali quando non a realizzare solo un maledetto e immediato guadagno. La vendita o la svendita del patrimonio pubblico non è stata accompagnata da una decisa apertura alla concorrenza e raramente ha coinciso con un reale processo di internazionalizzazione degli acquirenti. La borghesia produttiva, che tanti meriti ha avuto in questo Paese, ha mostrato segni di stanchezza, difendendosi dalla globalizzazione anziché aggredirla. A dispetto di un passato glorioso e in contrasto con un tessuto di piccole e medie imprese che si batte ogni giorno per la sopravvivenza. Certo, esistono casi di straordinario valore, marchi di risonanza mondiale, storie personali di eccezionale successo. E meno male. Ma colpisce che spesso si dica che sono emerse nonostante, non grazie al nostro Paese. E che i loro artefici si sentano sempre meno italiani.
Le privatizzazioni italiane non sono state decise nel giugno di vent'anni fa, a bordo del panfilo Britannia, sul quale la finanza anglosassone avrebbe irretito la nostra, come insiste un'altra vulgata sui poteri forti. Ma hanno visto la tendenza sistematica del grande capitalismo privato italiano a trovare rifugio negli ex monopoli pubblici o nel sistema delle concessioni statali quando non a realizzare solo un maledetto e immediato guadagno. La vendita o la svendita del patrimonio pubblico non è stata accompagnata da una decisa apertura alla concorrenza e raramente ha coinciso con un reale processo di internazionalizzazione degli acquirenti. La borghesia produttiva, che tanti meriti ha avuto in questo Paese, ha mostrato segni di stanchezza, difendendosi dalla globalizzazione anziché aggredirla. A dispetto di un passato glorioso e in contrasto con un tessuto di piccole e medie imprese che si batte ogni giorno per la sopravvivenza. Certo, esistono casi di straordinario valore, marchi di risonanza mondiale, storie personali di eccezionale successo. E meno male. Ma colpisce che spesso si dica che sono emerse nonostante, non grazie al nostro Paese. E che i loro artefici si sentano sempre meno italiani.
L'ultima amara realtà è che non vi sono vere élite o egemonie di
qualità, ma solo una congerie disordinata e caotica di ingessature
corporative, una miriade di casellanti muniti di veto. Chi teme i poteri
forti può stare tranquillo. Chi ha a cuore il futuro del Paese, la
formazione di una classe dirigente di qualità, le riforme e il ritorno
alla crescita, ha molto di che preoccuparsi.