Propongo un interessante articolo di Paola Caridi sulla Siria:
http://invisiblearabs.com/
CONTRO LA GUERRA DEL LEVANTE
Confesso che non avrei mai creduto di dover scrivere questo
commento perché pressata dai miei lettori e da chi, in questi ultimi
giorni, mi ha accusata di nicchiare sull’argomento “Siria”
perché, in fondo, non sono contro il regime di Bashar el Assad.
Eppure avevo già detto perché sulla Siria scrivevo poco: ci sono
analisti che ne sanno molto più di me. Che parlino – giustamente –
loro e spieghino a noi tutti cosa succede nel ‘buco nero’ di
Damasco, del potere degli Assad, della burocrazia-sistema.
Ora,
però, bisogna dire come la si pensa. Non tanto per chi, in questi
ultimi giorni mi ha attaccato usando i soliti termini enfatici
dell’ultimo ventennio italiano (“schifo” è una delle parole
usate in questa occasione, “vomito” è invece una di quelle che
mi hanno scritto per la mia posizione sull’Egitto).
Non è tanto
per rispondere alle offese: a quelle vorrei rispondere non parlando
di Siria, ma parlando un giorno del modo in cui abbiamo ridotto
vocabolario e capacità di discutere in Italia.Parliamo, dunque,
di Siria. Alcuni anni fa ho cercato di avere un visto per
giornalisti, per andare di nuovo in Siria. Volevo intervistare i
leader di Hamas per il mio libro sul movimento islamista
palestinese.
Rifiutato, più volte. Scoprii, poi, che era perché avevo scritto un
articolo sul partito Baath che a Damasco non era piaciuto. Incerti
del mestiere, se provi a usare lo spirito critico, in questo caso sul
regime degli Assad. Non sono, dunque, una di quelle ciniche
sostenitrici del regime che “sì, in fondo non è una dittatura,
tiene unita la Siria, la mantiene laica, e aiuta anche i cristiani”.
No, il regime di Assad padre e Assad figlio non mi è mai piaciuto,
l’aria para-sovietica che si respirava talvolta a Damasco (simile a
quella che avevo respirato nell’Europa dell’est pre-1989) non mi
piaceva affatto. Gli informatori del regime seduti nelle hall degli
alberghi, la pervasività del controllo, i terribili vestiti da uomo
tra il crema e il grigino spento, la necessaria convivenza tra un
regime stantio e una società così vivace, raffinata, bella…
Quando
dalla Siria cominciarono ad arrivare le immagini di “Bab El Hara”,
inno al nazionalismo e alla rivolta in versione serial televisivo, in
molti cominciammo a capire che il vestito del regime costruito
attorno alla società siriana si andava slabbrando. Ma la Siria di
Assad faceva e fa comodo a molti. Non certo a me. Fa comodo ai vicini
israeliani, come hanno ripetuto spesso in questi anni in Israele
commentatori e alti esponenti militari e dell’intelligence: meglio
un nemico conosciuto di uno di cui non si conoscono vita, morte,
miracoli e difetti. Aggiungo: meglio Assad, che sul Golan non ha
praticamente sparato un colpo, di un nuovo sistema istituzionale
siriano, magari democratico, che avrebbe posto seriamente sul tappeto
la questione del Golan occupato e di un contenzioso diplomatico mai
risolto.
Il regime degli Assad, poi, non è dispiaciuto così
tanto all’Europa. Non è dispiaciuto affatto all’Italia, compreso
alla politica targata DC e PSI che con Assad padre ha molto
colloquiato. Anche gli Stati Uniti hanno provato a più riprese a
ragionare, con il regime di Damasco, e lo stesso – anzi, di più –
ha fatto il Regno Unito. Tralascio di parlar della Russia, visto che
l’alleanza Mosca-Damasco è l’unico brandello rimasto di guerra
fredda in Medio Oriente, sostenuta – però – da attualissime e
determinanti questioni di controllo strategico delle vie del petrolio
più a oriente, attraverso le buone relazioni con l’asse
siro-iraniano.
E ora, dunque, cos’è cambiato? Tutti questi
attori, che per due anni e mezzo hanno mostrato una serissima e
preoccupante incapacità non solo diplomatica ma strategica verso la
Siria, ora piangono i morti per gas nervino?
Sappiamo tutti che
non è così, e che l’accelerazione degli ultimi giorni sul piano
militare non ha nulla a che vedere con una presunta pressione delle
opinioni pubbliche occidentali. La Siria non fa breccia nei cuori
occidentali sin dal 15 marzo del 2011. Nonostante San Paolo, Aleppo,
le stoffe damascene, la moschea degli Omayyadi e le reliquie di San
Giovanni Battista. Ahimè, il biancore irreale dei bambini morti per
armi chimiche non ha avuto peso, in questa accelerazione, come non lo
hanno avuto i settemila bambini morti sino ad ora e le centinaia di
migliaia, i milioni di bambini sparsi per la Siria, sfollati, e
quelli profughi fuori dai confini del Bilad as-Sham. Semmai, forse, è
stato l’aumento della tensione dentro il Libano, con le ultime
autobombe a Beirut sud e soprattutto a Tripoli, a far accelerare la
macchina militare di Washington e Londra.
Il gioco è cinicamente
diplomatico-strategico? Si direbbe di sì. Eppure, a me verrebbe da
dire: magari. Magari vi fosse una unica precisa strategia, da
condividere o da osteggiare. Magari vi fosse un unico obiettivo,
serio e condivisibile, oppure malsano. E invece, per quanto mi
riguarda, vedo all’orizzonte molta confusione, come quella del
Grande Gioco che storicamente ha invischiato l’Afghanistan in un
destino funesto. In sostanza, ci sono molti obiettivi, molte alleanze
che si fanno e si disfano a seconda del momento, molti nemici, molti
interessi individuali (dei singoli Stati) e poca strategia.
È per
questo che sono con profonda convinzione contro la prossima Guerra
del Levante. Una guerra che non aiuterà la memoria dei bambini morti
per gas e di quelli morti per proiettili, fame, crudeltà. Una guerra
che forse inizierà con qualche missile lanciato da qualche nave di
fronte alle coste siriane, e che può continuare con qualche razzo
sparato dal Libano verso Israele, dove il 60% della popolazione ha
ora le maschere antigas. E nel Libano del sud, se qualcuno se ne
fosse dimenticato, ci sono mille soldati italiani in territorio
controllato da hezbollah che dovrebbero interporsi (a cosa? A chi?).
E più a nord – nell’area di Tripoli – c’è una tensione così
forte che ai libanesi parla ancora una volta di guerra civile per
procura. Poi, più a est, c’è un Iraq per nulla pacificato, con
mille morti per attentati nel solo mese di luglio (qualcuno, in
Italia, se n’è accorto, e ha per caso gridato all’orrore e alla
crudeltà di un massacro che va avanti da dieci lunghissimi
anni?).
Non credo serva a molto, agli strateghi, aver protetto il
fianco sud di Israele, se questa è stata una delle ragioni che
sottendono al colpo di stato militare in Egitto (ah, già, non è un
golpe, allora continuiamo a chiamarlo Ugo!). Normalizzato l’Egitto,
ci si può rivolgere a nord, dalle parti della Siria, con un po’
più di sicurezza… Non credo serva perché in Medio Oriente le
operazioni chirurgiche possono avere risultati concreti nel breve
periodo (vedi l’ultima breve e sanguinosa guerra Libano-Israele del
2006 o l’Operazione Piombo Fuso lanciata da Israele contro Gaza nel
dicembre del 2008). Poi, però, aprono i vasi di Pandora che la
storia recente ci ha mostrato.
Così, un intervento militare
anglo-americano senza una strategia chiara, e un obiettivo
altrettanto chiaro, non può che aprirlo, l’ennesimo vaso di
Pandora. Cosa vuol dire, un intervento militare limitato? Dire ad
Assad di non superare la linea rossa delle armi chimiche? Una
richiesta ridicola, vista la tragedia in atto da due anni e mezzo: la
linea rossa è già stata superata nei primi mesi della repressione
di Assad contro la rivoluzione siriana, e se si fosse intervenuti
allora, con una seria e preparata diplomazia, non staremmo qui a fare
gli spettatori della più grande fuga di civili inermi dalla guerra
che il Medio Oriente abbia mai visto. Se le cancellerie fossero
intervenute allora, non ci troveremmo qui a tentare di capire quali
sono i cattivi meno cattivi, a capire chi, nel fronte
dell’opposizione, gioca veramente per i siriani, e chi invece per i
qatarini, i sauditi, i turchi, e via elencando.
E allora, qual è
il vero obiettivo? Creare un precedente nei confronti dell’Iran?
Come per dire a tutto il mondo che Stati Uniti e Gran Bretagna
rispondono, sanzionano, bombardano se si usano le armi proibite (armi
proibite? Cosa vuol dire, che le altre sono lecite? Che a Falluja non
è successo niente? Che il fosforo bianco su Gaza era lecito? Che i
bombardamenti sulle città fanno meno male?). Il messaggio potrebbe
essere: attenta Teheran, possiamo anche farlo, un bombardamento
chirurgico sui tuoi siti nucleari, così come possiamo colpire i siti
che le intelligence ci indicheranno, in territorio siriano.
Non è
così, non è con un intervento militare inizialmente limitato che si
risolve il rovello siriano. Non è con una discussione da bar dello
sporti, e cioè sposando una causa, che si salvano i civili siriani.
Non è innalzando i recinti tra i buoni e i cattivi (a proposito: chi
li decide, i buoni e i cattivi?) che si risponde in maniera seria a
una tragedia che vede tutti responsabili, noi compresi. Non sono una
pacifista tout court. Sono stata tra coloro che hanno chiesto, ben
prima dell’intervento in Kosovo, l’intervento in Bosnia, dove si
è consumata un’altra tragedia ignorata per anni dalle opinioni
pubbliche europee. Con la stessa forza, oggi, mi oppongo
all’intervento militare ‘limitato’, che non è contro regime,
ma sarà – nel tempo malsano della guerra – contro i siriani. I
civili siriani.
Questa è la mia posizione sulla Siria. Come mi
avevate chiesto.