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Noi genitori «spazzaneve»
Padri e madri dell'Occidente hanno eliminato ogni ostacolo dalla strada dei propri figli. Pensando di dare un futuro ai «bambini». Che, invece, se fossero vissuti qualche decina di anni fa (o in un altro continente), se la caverebbero decisamente meglio.
di E. Kolbert
Nel 2004 Carolina Izquierdo,
antropologa della University of California di Los Angeles, passò alcuni
mesi in mezzo ai Matsigenka, una tribù dell’Amazzonia peruviana che
vive – cacciando scimmie e pappagalli, e coltivando yucca e banana – in
capanne coperte di foglie della palma kapashi. A un certo punto, decise
di accompagnare una famiglia che scendeva lungo il fiume Urubamba per
raccogliere, appunto, foglie di palma. E Yanira, che apparteneva a
un’altra famiglia, chiese di aggregarsi.
Nei cinque giorni
della spedizione, Yanira trovò subito il modo di rendersi utile.
Ripuliva dalla sabbia le stuoie usate per dormire, imballava le foglie
perché potessero essere più agevolmente trasportate al villaggio,
pescava crostacei che puliva, lessava e serviva alla comitiva. In
cambio, ricorda l’antropologa, «non chiese mai nulla», e questo la
colpì. Perché Yanira era una bambina di sei anni.
Contemporaneamente, la Izquierdo partecipava a un altro studio di antropologia
ambientato in una location, diciamo così, decisamente meno esotica. La
sua collega Elinor Ochs aveva selezionato trentadue famiglie borghesi di
Los Angeles, e le filmava a tavola o mentre sbrigavano le loro
faccende, durante le liti o le rappacificazioni, allo scopo di scoprire
di più sulle loro abitudini, compresa l’educazione: come facevano i
genitori ad abituare i figli ad assumersi responsabilità da adulti?
O forse sarebbe meglio dire: come non facevano. Perché in nessuna delle famiglie sotto osservazione i figli avevano l’abitudine di dare aiuto,
a meno che non fosse loro espressamente chiesto. Spesso bisognava
implorarli per convincerli a svolgere i compiti più semplici, e a volte
neppure questo bastava. In un episodio piuttosto comune si vede un padre
chiedere al figlio di otto anni, per cinque volte, di andare «per
favore» a farsi una doccia, poi, esasperato, sollevarlo di peso e
depositarlo in bagno; ma pochi istanti dopo il bambino, senza aver
toccato una goccia d’acqua, esce dal bagno e si mette davanti alla
console dei videogame.
Altro episodio emblematico, quello
della ragazzina, sempre di otto anni, che si siede a tavola e, notando
l’assenza di forchetta e coltello, dice a suo padre: «Io come faccio a mangiare?»;
e benché sappia benissimo dove si trovano le posate, è lui che si alza a
prenderle. Infine, Ben, un maschietto, che deve uscire di casa con i
genitori ma non riesce a infilare i piedi nelle scarpe da ginnastica
perché sono allacciate, così le porge al padre e gli ordina:
«Slacciale!». E poi se le fa anche riallacciare.
La Izquierdo e la Ochs hanno raffrontato – in un articolo su Ethos,
il giornale della Società di antropologia psicologica – il
comportamento di Yanira e quello di Ben, per rispondere a una domanda
che a questo punto della lettura, se siete genitori, risuonerà anche
nella vostra testa: perché noi, uomini dell’Occidente evoluto, abbiamo figli che invece di aiutarci ci fanno impazzire?
Con
l’eccezione degli eredi degli imperatori Ming e dei delfini della
Francia prerivoluzionaria, i nostri figli sono forse gli individui più
viziati nella storia del genere umano. Non solo li abbiamo ricoperti di «cose»
– giocattoli, computer, cellulari, televisori, sci, abiti – ma abbiamo
anche dato loro un’autorità che non ha precedenti. «I genitori vogliono
l’approvazione dei figli», osservano gli psicologi Jean Twenge e W.
Keith Campbell, «cioè l’esatto contrario di quello che è sempre accaduto
in passato, quando erano i piccoli a cercare disperatamente
l’approvazione dei grandi». In molte famiglie ci sono due o tre adulti
letteralmente asserviti ai capricci dei bambini: è come un esperimento
sociale su scala gigantesca.
La paura è che l’esperimento non stia funzionando, a giudicare dai sondaggi (due genitori americani su tre, secondo Time e Cnn, ritengono di avere figli viziati) e dalle librerie piene di manuali dai titoli eloquenti – cose tipo Il prezzo del privilegio, Viva le mamme cattive, L’epidemia del narcisismo –, non tanto guide del «come si fa» ma del «come si evita»:
come si evita di cedere ai capricci del pupo, come si evita di
intervenire non appena il figlio preadolescente appare annoiato, come si
evita di spendere una fortuna nella retta di una prestigiosa università
privata per poi ritrovarsi il laureato a casa che svuota la birra del
tuo frigo.
Una situazione, quest’ultima, che la giornalista
Sally Koslow ha vissuto da vicino quando suo figlio Jed, dopo quattro
anni di college e altri due passati a perdere tempo sulla West Coast, è
tornato a Manhattan – carico di trentaquattro scatoloni di preziosi
dischi in vinile – ad abitare dai genitori nella sua vecchia camera,
dove dormiva fino a ora di pranzo e passava il resto della giornata,
essendo disoccupato, a vagare per la casa in boxer. Sally si è messa in
testa di capire perché Jed, come tanti coetanei, era fermo a quella che
lei ha ribattezzato «adultescenza», ed è giunta alla conclusione che
c’entra la crisi economica, certo, ma soprattutto c’entrano i genitori
come lei.
«I nostri ragazzi», spiega, «si sono adagiati sulla
vanagloria, le buone intenzioni e la troppa generosità che abbiamo
riversato su di loro. Abitano ormai in una prateria di privilegi che
abbiamo dissodato e irrigato». E che lei suggerisce di abbandonare
perché torni a crescere il bosco: «Per molti di noi, il
miglior modo di dimostrare il nostro amore sarebbe smetterla di fare i
padri e le madri. Per esempio, starsene belli tranquilli quando il
rampollo decide infine di andarsene. Non come suo marito che, nel
trasportare gli scatoloni di Jed su e giù dalle scale del nuovo
appartamento, si è strappato un tendine ed è stato operato d’urgenza.
Madeline Levine, psicologa di San Francisco,
sostiene che facciamo troppo per i figli perché sopravvalutiamo la
nostra influenza: «Mai prima nella storia i genitori sono stati così
convinti, e così a torto, che ogni loro attenzione abbia una ricaduta
sul successo futuro dei figli». E invece, paradossalmente, è proprio
quando ci sforziamo così tanto di aiutarli che li danneggiamo:
«Purtroppo siamo cresciuti in una cultura che premia chi è speciale. Ma
essere speciali è difficile: troppo difficile, secondo noi, perché un
ragazzo possa riuscirci da solo. E così ci sentiamo in dovere di
monitorare in continuazione il suo lavoro e i suoi risultati, con la
conseguenza che lo facciamo sentire sempre meno competente, sempre meno
sicuro, sempre più bisognoso di supervisione».
Tempo fa,
illudendoci di poter far diventare i nostri figli un po’ più simili ai
loro coetanei della tribù Matsigenka, mio marito e io abbiamo assegnato
loro un nuovo compito: scaricare dall’auto le buste del supermercato.
Una sera Aaron, tredici anni e due buste, ha cercato di saltare una
pozzanghera; risultato: un rumore infernale e mezz’ora
passata a ripulire le schegge di una molotov di vetro e succo di frutta.
Per dargli una lezione di senso di responsabilità, abbiamo deciso di
dargli un ulteriore compito: portare fuori la spazzatura. Risultato: il
coperchio del cassonetto lasciato aperto, un orso attratto dall’odore e,
il mattino dopo, il cortile invaso da frammenti di carta e cibo.
Il problema, come hanno sottolineato Ochs e Izquierdo, è che i Matsigenka vengono
abituati fin da piccolissimi a scaldare cibo sul fuoco, a tagliare gli
arbusti con i machete, ad andare a caccia e a pesca. Quando raggiungono
la pubertà hanno acquisito tutte le tecniche di sopravvivenza
necessarie. La loro competenza genera autonomia, l’autonomia genera
ulteriore competenza: un circolo virtuoso.
Nelle nostre case
il circolo è vizioso. Dai figli ci si aspetta così poco che possono
arrivare all’adolescenza senza saper far funzionare nessuno degli
elettrodomestici di cui la loro casa è piena. L’incompetenza genera
esasperazione, e il risultato è che viene loro richiesto sempre meno (e
aumenta il tempo a disposizione per i videogame).
«Molti genitori», scrivono le due antropologhe, «dicono di trovare così
faticoso ottenere l’aiuto dei figli che preferiscono fare da soli».
Paradossale, dato che li considerano intelligentissimi e perfetti: il
piccolo Ben non saprà allacciarsi le scarpe, ma chi gli impedirà di
andare ad Harvard?
A proposito di Harvard: la psicologa Hara
Estroff Marano attribuisce proprio all’ossessione della «laurea buona»
gran parte del problema. I genitori delle classi abbienti, spiega, sono
preoccupati dal futuro incerto che aspetta i loro figli, vedono l’istruzione «di serie A»
come l’unica possibile arma contro una concorrenza sempre più feroce, e
pur di consentire ai rampolli di arrivarci sono disposti a togliere
loro ogni preoccupazione: non solo cucinano e puliscono per loro, ma li
aiutano nei compiti, pagano ore di ripetizione, se necessario – in caso
di voti insoddisfacenti – fanno persino causa alla scuola. Quelli di
oggi non sono più «genitori-elicottero», che seguono i figli dall’alto,
ma «genitori cacciabombardiere». Oppure «genitori spazzaneve», che
eliminano ogni ostacolo sulla strada dei loro «bambini». Tanto che,
sempre più spesso, un diciottenne arriva al college totalmente incapace
di gestire i più semplici aspetti logistici, come la biancheria.
Uno
dei frutti dello studio antropologico sulle famiglie di Los Angeles è
un libro illustrato dalle foto delle loro case, foto che raccontano più
di mille parole. Camere piene zeppe di abiti, pavimenti
ingombri di giocattoli dove camminare è un percorso a ostacoli – nella
stanza di una bambina in particolare l’inventario registra 248 bambole
–, e non solo: i possedimenti dei figli – le foto, i trofei, i disegni –
traboccano dalle loro camere fino a invadere l’intera casa, una casa
«bambinocentrica».
Il valore che i Matsigenka trasmettono è
quello dell’autonomia e dell’impegno: in quasi tutte le leggende
trasmesse oralmente c’è un personaggio condannato dalla sua indolenza, e
ai bambini pigri viene sfregata sotto i piedi un’erba che dà il prurito.
Invece, quali valori trasmettiamo quando permettiamo ai nostri figli di
trasformare le nostre case in magazzini di bambole? Quando assegniamo
loro un compito e li premiamo anche se non lo svolgono? Quando slacciamo
e allacciamo le loro scarpe? Sembra che davvero ce la stiamo mettendo
tutta per crescere una generazione di «adultescenti».
Una
delle peculiarità dell’Homo sapiens è il fatto di essere molto immaturo
alla nascita, e di impiegare molto tempo a diventare maturo. Gli
scimpanzé, per esempio, alla nascita hanno il cervello che è la metà
della dimensione adulta, e raggiungono la pubertà subito
dopo lo svezzamento; negli uomini, invece, il cervello alla nascita è
solo un terzo di quello adulto, e la pubertà tarda una decina abbondante
di anni. Molti antropologi ritengono che proprio da questo lento e
complesso meccanismo di apprendimento dipenda il fatto che solo
nell’uomo si è potuto sviluppare il linguaggio. Insomma, a renderci
umani sarebbe proprio la nostra «prolungata infanzia».
Un’infanzia che però, con il passare del tempo, si allunga sempre più. Nell’Europa medievale, i bambini all’età di sette anni iniziavano a lavorare con gli adulti. La scuola dell’obbligo, nello scorso secolo, ha spinto verso i sedici anni la soglia della maturità. Ma sempre più spesso la «vita da figlio» dura fino alla laurea, e spesso molto oltre. E questa «adultescenza», più che del progresso, rischia di avere il sapore della regressione. Dovrei pensarci, la prossima volta che porto fuori la spazzatura o allaccio le scarpe a mio figlio.